Dedico questa pagina agli incontri speciali del nostro Piccolo Mondo Antico.

Stefania Ciabò

avi 99:2000Allo Sneh Sadah di Avinash Ganesh, Milano, Capodanno 1999/2000

Ne parlo ora perché il suo inseparabile marito Pietro Coletta, scultore di pregio, mi ha fatto avere per volontà di Stefania tutto il materiale di studio accumulato negli anni, libri, quaderni, testi, appunti. Ed è stato commovente per me realizzare con quanto amore si sia dedicata a quest’arte sfogliando i suoi disegni di coreografie, le sue cartelle ordinatamente raggruppate, i suoi scritti chiaramente concepiti. … Stefania era una persona e una artista votata alla bellezza, alla luce, alla benevolenza…perciò da noi veniva anche chiamata scherzosamente Colei Che Non Fa Testo: la sua visione eternamente positiva a volte lasciava sconcertate, possibile che sia davvero tutto così buono?  E che valga anche per gli altri?
Sempre pronta a ridere e condividere le avventure di danza fra noi “Gopi”, si dedicava serenamente a quest’arte, senza pretese o ambizioni velleitarie, godendo di ciò che riusciva a ottenere dalle sue possibilità. L’India era per lei un magico scrigno colmo di doni preziosi per la sua arte: dalla danza ai tessuti, dagli affreschi ai disegni dei Rangoli, dagli oggetti di artigianato all’arte orafa…tutto la ispirava, e in tanto si cimentava.
Improvvisamente si ammalò. Sottoposta a chemio e radioterapia, per aiutarsi leggeva “Un altro giro di giostra” di Tiziano Terzani, e poi mi chiamava ridendo delle immagini che lo scrittore inventava, tipo “la Ragna”, per indicare un macchinario infernale…
Si riprese, anche se perse i suoi meravigliosi capelli lunghi sulla schiena, ma una artista come lei ne approfittò per drappeggiare sontuosi turbanti di seta…
Un giorno mi chiamò, voleva venire a ripassare Taye Yashoda, una danza a cui teneva molto. Le aprii la porta. Ci guardammo, io piegata in due come una befana centenaria per un famigerato colpo della strega, lei ancora un po’ gonfia per le cure e un lungo telo drappeggiato sulla testa. Scoppiammo a ridere, chi ci fermava a noi?
Ma dopo due anni il dio Yama la fermò, senza peraltro intaccare minimamente  il suo spirito, che rimase alto, positivo e vigoroso fino alla fine. Perché era Colei Che Non Fa Testo.

 

con savitri e meCon me e la nostra Maestra Savitri Nair, Venzia 1998

io e stef seppiaDopo “Avatar, la Discesa Necessaria”  Compagnia di danza Lasya, Milano 2000

Con gopisUn tè con le Gopi (qui Isa e Shashi)

taye yashodaLa prima pagina della sua adorata Taye Yashoda

Artista ed esteta fino in fondo in ogni cosa che faceva, non solamente quando si presentava in pompa magna ad un pubblico. Me la vedo tutta contenta prendere dei fogli e cominciare a scrivere e disegnare beandosi di tanta bellezza, grata di poterla assaporare. Anzi, ci giurerei, piena di gratitudine, perché era Colei Che Non Fa Testo.

 

Avinash Ganesh

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CASA GANESH 2008

con Lucrezia Maniscotti

A un anno dalla partenza di Avinash verso altri Loka, il ricordo di un amico prezioso.

“Ma tu come sei capitata in India?” mi ha chiesto una sera Avinash Ganesh. Stavamo cenando insieme dopo uno spettacolo di Bharata Natyam che avevamo presentato insieme a Lucrezia Maniscotti nel suo nuovo agriturismo Casa Ganesh a Varzi.
Con il Centro Culturale Sneh Sadah a Milano, Avinash aveva rappresentato per tutti gli anni ’90 l’unica luce indiana. Il Centro apriva solo la sera, e molto spesso dopo la cena offriva uno spettacolo di danza o un concerto di musica per far conoscere agli avventori, oltre il cibo, anche l’arte dell’India. Avinash ha sempre avuto molto rispetto degli artisti: la cena doveva essere rigorosamente conclusa prima della performance; i tavoli e le sedie venivano spostati per creare lo spazio adatto, e la moglie di Avinash, Mary, introduceva gli ospiti alla forma d’arte che sarebbe seguita.
Molti musicisti indiani si sono esibiti allo Sneh Sadah, e molti danzatori e danzatrici; ma la cosa particolare era che Avinash proponeva anche le danze indiane di chi come me, indiana non era affatto – e di questo non lo ringrazierò mai abbastanza. Allo Sneh Sadah non si faceva alcuna differenza fra indiani e non indiani: quello che importava era la passione per l’arte. Lì ho potuto sperimentare i miei racconti mitologici introduttivi alle danze, lì ho potuto danzare con le mie allieve in occasione di varie festività indiane. E’ stata una vera perdita quando Avinash ha chiuso il centro e lasciato la città.
Quella sera, alla sua domanda ho iniziato a raccontare il mio primo viaggio, e d’un tratto lui, ridendo fino alle lacrime, ha esclamato: “Ma devi scrivere un libro sulla tua storia con l’India!” Questa è una cosa che in India capita spesso: qualcuno spinge qualcun altro in modo appassionato e assolutamente disinteressato a fare qualcosa, e di solito la proposta è ispirata. Scrivere qualcosa…”Beh, ho risposto io, ho tutti i miei diari…” “Allora è fatta!” ha commentato lui.
Così ho ripreso in mano i miei quaderni indiani con gli dèi in copertina, e li ho riletti estraendo man mano quello che mi sembrava più interessante da leggere anche per gli altri, quelli che dopo una dimostrazione di danza Bharata Natyam, hanno curiosità verso la mia esperienza personale: com’è successo che una ragazza italiana si sia dedicata ad una forma d’arte così lontana e diversa? che rapporto ho con l’India? mi sono convertita all’Induismo? Perché, come, quando, dove?…
Grazie Avinash.

 

Sangeeta Isvaran

Sangeeta 2

Il coraggio di una danzatrice

Giovedì 9 Ottobre, grazie all’ideazione di “Darbar, India in Danza” a cura di Antonella Usai, si è tenuto a Tornio un recital di Sangeeta Isvaran, rinomata danzatrice e coreografa di danza Bharata Natyam con base a Chennai.

Ma definire Sangeeta danzatrice è riduttivo rispetto alla sua dimensione artistica.
La sua attività è nutrita dalla convinzione che la danza sia uno strumento in grado di promuovere non solo bellezza ma anche profonda trasformazione sociale. Le sue coreografie trattano spesso di temi legati all’ingiustizia sociale e al possibile e quanto mai necessario rinnovamento della coscienza civile.Con una bella e potente presenza scenica, Sangeeta sa utilizzare pienamente l’arte dell’abhinaya per ricreare un senso del sacro contemporaneo, dove l’amore e la ricerca dell’unione non sia solo con il divino, ma con l’essere umano stesso, spesso solo, confuso e sperduto nel mare della vita.

Quest’anno la sua ricerca l’ha portata a presentare un tema ancora più coraggioso: cosa resta quando il corpo arde sulla pira funeraria?
Prendendo come guida le poesie dell’unica donna asceta devota di Shiva, Kairakkal Ammayar, ha posto questa domanda fra una danza e l’altra (in italiano, per di più!) accompagnandoci nel mondo di una mistica che per essere ancora più vicina all’Amato ha voluto rinunciare alla bellezza del proprio corpo femminile, chiedendo a Shiva solo di poterlo adorare vivendo scheletro, fantasma tra i fantasmi, circondata da cadaveri e sciacalli, accanto ai roghi funebri, lì dove il dio danza l’ultima illusione, quella di essere corpo.

Un tema difficile, soprattutto per l’estetica indiana che non prevede, nella danza, la rappresentazione di un mondo così macabro, che non indulge in nessun piacere, se non quello di un’estasi desiderata a tal punto da rinunciare alla vita stessa e ai suoi piaceri.
I poemi di Kairakkal Ammayar non sono musicati né cantati nei templi, data la scelta così radicale di lasciare l’unica bellezza luminosa alla danza di Shiva, la cui presenza non ha bisogno di nulla per essere percepita: non di magnifici seni, né di folti capelli, o morbida pelle. Quello che a noi può sembrare un sacrificio, per la mistica è gioiosa liberazione, perfino dal proprio corpo, pur di abbandonarsi totalmente ai piedi danzanti del suo dio.

Anni fa, nel tempio Kapaleeswarar di Madras, avevo notato tra le sculture dei santi shivaiti, una figura emaciata, praticamente uno scheletro, con seni avvizziti e una stoffa a ricoprirli che indicava chiaramente una donna. L’amico Murali mi aveva parlato di lei, Kairakkal Ammayar. Avevo cercato le sue poesie, affascinata da una scelta spirituale così estrema, gotica, dark, chiedendomi spesso come sarebbe stato rappresentarla. Solo Sangeeta poteva avventurarsi nel crematorio, e trasmetterci invece pienamente quanta luce resti quando il corpo arde sulla pira funeraria. Brava.

 

Yaminiji e il pavone Bianco

Nel luglio del 2007 Giovanna Leva Joglekar portò con sè a Milano la sua straordinaria maestra di Bharata Natyam, Yamini Krishnamurti.

Dopo il seminario e la serata al Sirin, Giovanna e Yamini si spostarono ad Arona, sul lago Maggiore, vicino a me. Così il giorno che Yamini restò sola, la passai a prendere e ce ne andammo alle Isole Borromeo, e precisamente sull’Isola Bella.

Lì Yamini incontrò il pavone bianco. E gli cantò una canzone.

Oh eccoti qua, che meraviglia, ti voglio cantare una canzone!

1. Oh eccoti qua, che meraviglia, ti voglio cantare una canzone!

 

3. ...mmmmhmmmh, mayur...

2. …mmmmhmmmh, mayur…

 

3. eeehhe...mayur, mayur

3. eeehhe…mayur, mayur

 

4. E adesso dove te ne vai?

4. E adesso dove te ne vai?

 

5. Che pavone d' un pavone!

5. Che pavone d’ un pavone!

Namaskar Yaminiji, with love and…hasya!